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domenica 11 ottobre 2015

Strange face, with your eyes ... Ayub Ogada Pt. 2



Ayub Ogada, Kenya, classe 1952, lo scopro solo ora. E' una di quelle epifanie che, cogliendoti impreparato, ti fanno inchiodare bruscamente nel mezzo del fare quotidiano. Come se tutto il resto corresse a velocità normale e tu rimanessi lì, immobilizzato, ad osservare - a prospettive invertite - quel 'resto' muoversi al rallentatore, ora in affanno, ora con leggerezza. Parafrasando Daniel Pennac, che si riferisce alla lettura nello specifico: la virtù paradossale dell'arte è quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso.

Ecco, questa è stata, pochi giorni fa, la mia scoperta di Ayub Ogada e della sua musica. Cantore sublime, una voce che è appena un sussurro e accarezza talvolta un mezzo falsetto che, complici i soffici riverberi acustici della lira (nyatiti), fa davvero materializzare il dolce ricordo di Nick Drake.






Segnalo le due pubblicazioni essenziali: Kodhi, uscito lo scorso aprile per la Long Tale Recordings, e registrato insieme al chitarrista Trevor Warren; En Mana Kuoyo, edito nel 1993 dalla Real World di Peter Gabriel, che ha sempre avuto fiuto nello stanare il talento in giro per il mondo.
Se quest'ultimo si focalizza sul binomio voce/atmosfere acustiche, e l'effetto è quello, meraviglioso, d'una sorta di Pink Moon che volge la propria poesia al cielo australe, Kodhi si apre a suggestioni lontane, vagamente west-coast (quella californiana), come se al posto di Warren, a duettare con la lira di Ogada, ci fosse un Jerry Garcia intento a comporre i suoi inni al Sole e alla Luna.

Tra la Luna Rosa, le Montagne della Luna, i Cieli del Nord e del Sud, si crea così un indicibile corto circuito emozionale. 
E allora tutto va bene.

Ode ad Ayub Ogada.





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