E' consigliato parlare con gli sconosciuti ...

E' consigliato parlare con gli sconosciuti ...

giovedì 28 dicembre 2017

The Greatest









 1)Tinariwen – Elwan (ANTI-)

      2)Fleet Foxes – Crack-Up (Nonesuch)

     3)Cesare Basile – U Fujutu Su Nesci Chi Fa? (Urtovox)

      4)Girma Bèyènè & Akale Wubé – Ethiopiques 30: Mistakes On Purpose (Buda Musique)

  5)Michael Chapman – 50 (autoprodotto)

  6)Tony Allen – The Source (BlueNote)

 7)Saz’iso – At Least Wave Your Handkerchief At Me (Glitterbeat)

 8)Hypnotic Brass Ensemble – Book Of Sound (Honest Jon’s)

   9)Fabiano Do Nascimento – Tempo Dos Mestres (Now-Again)

   10)Boubacar Traore – Dounia Tabolo (Lusafrica)



Eccone altri ...

 Mavis Staples – All I Was Was Black (ANTI-)

 3ma – Anarouz (Six Degrees Records)

  Classica Orchestra Afrobeat featuring Njamy Sitson – Polyphonie (Sidecar/ed. musicali Brutture Moderne)

The Dream Syndicate – How Did I Find Myself Here? (ANTI-)

 Throttle Elevator Music – Retrorespective (Wide Hive Records) 

 Msafiri Zawose – Uhamiaji (Soundway)

 The Heliocentrics – A World Of Masks (Soundway)

  Maalem Mahmoud Gania – Colours Of The Night (Hive Mind Records)

   Godspeed You! Black Emperor – Luciferian Towers (Constellation)

  Group Doueh & Cheveu – Dakhla Sahara Session (Born Bad Records)

Marvin Pontiac - The Asylum Tapes (Strange and Beautiful Music)

   What Cheer? Brigade – You Can’t See Inside Of Me (autoprodotto)

  Cody Chesnutt – My Love Divine Degree (One Little Indian)

   Nomade Orquestra – Entremundos (Far Out)

   Orchestra Baobab – Tribute to Ndiouga Dieng (World Circuit)

 Trio-Da Kali & Kronos Quartet – Ladilikan (World Circuit)

   Bargou 08 – Targ (Glitterbeat)

  Psychic Temple – IV (Joyful Noise Recordings)

   Les Amazones D’Afrique – Republique Amazone (Real  World)

 Mdou Moctar – Sousoume Tamachek (sahelsounds)

  Roots Magic – Last Kind Words (Clean Feed)



domenica 3 dicembre 2017

Orchestral instrumental hip-hop contemporary big band etc etc etc



Chi mi conosce sa quanto mi facciano impazzire i progetti meticci, quelli che mescolano 'alto' e 'basso' (prendete l'utilizzo di questi termini come pure suggestioni e non, evidentemente, come giudizi di valore).

Tutto l'hip-hop che si ibrida col jazz e col funk in primis. E poi quei musicisti come Miguel Atwood-Ferguson, che per quanto mi riguarda occuperà sempre un posto speciale nel mio cuore, fosse semplicemente per quel Suite For Ma Dukes, il concerto in onore del rapper e produttore americano prematuramente scomparso nel 2006, J Dilla. Un'orchestra di 60 elementi, con ospiti di spicco del mondo hip-hop, impegnati non soltanto nel rendere omaggio ad un musicista venuto a mancare troppo presto, ma - osservando l'evento da una maggiore distanza emozionale - nel trasmutare quei frammenti di intuizioni ritmico-melodiche in altro.




Ne riparlo volentieri, a distanza anche temporale dall'uscita (2010), grazie ad un ottimo pretesto:





Non sono mai stata un'amante dell'hip-hop californiano, troppo cazzaro per i miei gusti più nerd e politicizzati da East Coast. Di Dr Dre ricordo la presenza in California Love di Tupac Shakur (altro nome che non mi ha mai fatto impazzire), uno dei tormentoni ai tempi di MTV negli anni '90.
Questo progetto però mi è immediatamente apparso figo, già dalla foto di copertina, da cui fa capolino il logo dell'etichetta (TruThoughts), una garanzia. Ottimi i musicisti coinvolti, a cominciare da quel Sly5thAve a cui il disco è intestato (all'anagrafe Sylvester Uzoma Onyejiaka, sassfonista jazz di ampie vedute): un suono favoloso, caldo, impasti funk-orchestrali che si innestano su beats lenti e avvolgenti. Puro zucchero.





Nel mentre ne scovavo la versione integrale su YouTube, mi imbattevo in codesto ulteriore zuccherino:





Altro omaggio a J Dilla, reso da questa Abstract Orchestra della cui esistenza apprendo solo in questo momento. Ad un primo ascolto mi pare roba buona. Buoni ascolti!



giovedì 30 novembre 2017

Libro del suono



Sull'onda emotiva del ricordo del jazz spirituale e 'conscious' del padre, Kelan Philip Cohran (già trombettista nella Arkestra di Sun Ra, e scomparso nel giugno di quest'anno), Hypnotic Brass Ensemble - Cohran ha avuto figli numerosi - propone un lavoro bellissimo e intenso.

Da un approccio più 'stradaiolo', da brass-band che mescola funk, jazz e hip-hop, al "libro del suono": tanto importante è il percorso compiuto da questi ragazzi, che peraltro vantano una discografia di livello notevole.


Azzerati i battiti delle percussioni, qui ci si basa sul ritmo di bassi sparuti, su vibrazioni di chitarre acustiche appena pizzicate, sull'utilizzo delle voci e, ovviamente, sulle impalcature e sulle melodie struggenti dei fiati.

Ascoltare "Morning Prayer" in una mattinata d'inverno, nel mezzo della nebbia ... che esperienza.


domenica 1 ottobre 2017

La Banlieu della gioia






Iniziativa davvero degna di nota questa festa delle culture africane promossa dalle associazioni che gravitano su Milano. Dal teatro alla moda, passando per la danza e, ovviamente, la musica, l'atmosfera è piacevolmente calda e accogliente.



Un plauso alla super esibizione "Yele" a cura dell'Associazione Sinitah, che accompagna con ritmi e danze dell'Africa Occidentale, Burkina Faso nello specifico, la sfilata di moda: che ensemble ragazzi!



Infine Baba Sissoko e la sua band, che non si fanno attendere.


Che dire, la veste così esplicitamente funk-blues e tendente all'improvvisazione mi ha sorpreso. L'elettricità distorta che si propagava nel magnifico spazio della Fabbrica del Vapore (acustica non proprio eccelsa, ma ci si accontenta) era una manna, e rimbalzava gioiosamente fra il pubblico. Quel suono così denso e quelle ritmiche forsennate mi hanno fatto tornare in mente lo splendido blues del compianto Lobi Traore, e un poco l'ultimo lavoro di Bassekou Kouyate ("I Speak Fula").

 




Apprendo con piacere che il disco in uscita, "Mediterranean Blues" (Caligola Records, 2017), è registrato dal vivo, dunque non un grammo di quel suono 'spesso' e dell'atmosfera da jam session verrà presumibilmente perduto.


venerdì 29 settembre 2017

Abbattere le torri luciferine



Godspeed You! Black Emperor
Luciferian Towers
(Constellation)


Ecco un altro valido gruppo che mi piacerebbe vedere dal vivo before it's too late, nel loro caso non per motivi geriatrici. 
Ad un primo ascolto parrebbero, rispetto ai due dischi precedenti, più vicini alle loro origini in quanto ad ariosità di strutture e ad intuizioni melodiche, sempre molto epiche e suggestive.



Assistere a concerti di gruppi del genere deve essere una sorta di rito collettivo, un'esperienza catartica.
Mi è accaduto qualcosa di simile lo scorso anno con i Fire! Orchestra di Mats Gustafsson, che fecero tremare pareti e pavimento del Broletto di Novara.

Consiglio questa bella recensione di OndaRock, dove viene spiegato il senso di quello che si rivela essere una sorta di concept sulle possibilità (ri)generative del nostro Mondo e delle nostre società. 
Abbatterei volentieri con loro le torri luciferine.



mercoledì 20 settembre 2017

Cadere in tentazione ...



Msafiri Zawose
Uhamiaji
(Soundway, 2017)


E basta. Mi sono quasi stufata di trovare o creare appositamente la frasetta ad effetto con similitudini, immagini, accostamenti che suscitano curiosità e straniamento. 

Che noia.
La musica non si spiega, si vive. Si ascolta. La si fa.
You can't dance about architecture.

No mi spiace, non resisto.

Questo ragazzo della Tanzania, Msafiri Zawose, che ha giusto la mia età (anzi, è di nove mesi più giovane), ha creato una musica così fresca, divertente e originale che mi rende davvero faticoso non cadere in tentazione.

Ecco, la sparo: sembra afrobeat in salsa Congotronics ma con una misteriosa aura psichedelica (e cammei al sax in stile Shabaka Hutchings).

Ok, potete ridere.

 Il tutto è così sfuggente, difficilmente collocabile. La malìa esotica di Malugaro, con i suoi sette fluidi minuti, catapulta su una spiaggia del Pacifico (anzi, dell'Oceano Indiano, per la precisione). Tamaduni ha invece un andamento più techno, ma ecco che spuntano dei sax, un organo, e poi effetti elettronici assortiti.

Insomma, mi fermo. Chiudo la bocca e vi consiglio semplicemente di
lasciarvi ammaliare da questi suoni.

La Soundway ha dei passaggi a vuoto, ma quando ci prende, centra l'obiettivo magnificamente.





lunedì 21 agosto 2017

Le Fonti



Chi si aspettava da Tony Allen un ritorno all'afrobeat, o come negli ultimi lavori afrobeat addomesticato alla forma canzone, rimarrà deluso. 

Il grande batterista e percussionista, artefice con il Fela Kuti degli anni '70 di un suono e di una mistica denominata afrobeat, ha da sempre fatto della ricerca e della contaminazione le proprie bandiere. Fresco di collaborazioni illustri, da Damon Albarn a Jimi Tenor, in questo 2017 ci ha stupito (ma anche no) con un mini-album dedicato ad Art Blakey.




The Source, che uscirà a settembre per Blue Note, si inscrive in questo cammino artistico, verrebbe da dire di ricerca all'inverso, o meglio di ricerca delle proprie fonti e delle radici del proprio drumming.

Perché The Source è fondamentalmente un disco jazz alla maniera bop. Un disco bop con un drumming 'alla Tony Allen'.

Quindi un gran bel sentire.



domenica 16 luglio 2017

Fender al posto di fucili e musica come strumento di resistenza: Tinariwen a Villa Arconati




Tinariwen Live @ Villa Arconati, 12 Luglio 2017


I Tinariwen sono decisamente la cosa più rock n'roll in cui ci si possa imbattere nel 2017. 

Con il loro conturbante immaginario sensoriale che, più che un luogo fisico-geografico, è ormai luogo della mente: costretti a lasciare la loro Tessalit, nel nord-est del Mali, hanno inciso gli ultimi tre album nel deserto di Joshua, in California. 

Loro, con la loro formazione aperta: all'appello manca uno dei leader, Ibrahim Ag Alhabib, ma gli altri si suddividono meravigliosamente le responsabilità e il compito di trainare banda e pubblico. 
Loro, con i continui scambi di chitarre acustiche, elettriche e basso: stupore tra il pubblico quando il bassista si trasferisce al centro del palco, affidando il basso ad uno dei compagni ed esibendosi in due pezzi da brivido (uno dei quali, Nannuflay, vedeva su disco un cammeo di nientepopodimenoche Mark Lanegan).





Vi risparmio la spiega su come i Nostri si siano incontrati per la prima volta  - perlomeno, i leader - in un campo di addestramento libico. I Tinariwen nascono infatti nel 1979, mostrandosi nel tempo come uno dei gruppi più longevi e credibili dell'ondata tuareg-rock, che, diciamolo pure, rimane un genere 'di nicchia' (e ne siamo felici ... a quante banalizzazioni potrebbe prestarsi? Meglio non saperlo). Ad ogni modo rimando a questo articolo per un approfondimento, a mio parere necessario per meglio comprendere la visceralità della loro musica.


Un'ora e mezza di rock-blues trascendente, ipnotico, che parte piano - anche nel coinvolgimento del pubblico, che si attarda tra birre e piadine al bar e accorre veloce non appena i Nostri compaiono - per continuare in un crescendo di ritmi suadenti ed elettricità sempre più densa (quando le due elettriche suonano contemporaneamente la band prende letteralmente il volo).




Si conclude con una sorta di rap, ripescato dal primo album, The Radio Tisdas Sessions, che infiamma chi ancora non stava bruciando (personalmente ho preso a bruciare dall'inizio ... e con Assawt sono quasi evaporata ...).

Un gruppo unico e strepitoso che si è concesso generosamente in una cornice, quella di Villa Arconati, davvero speciale.




lunedì 3 luglio 2017

Concerto Versatile



Antonella Ruggiero che tiene un concerto alla Festa di San Defendente a Cassolnovo, pure una delle più sentite qui in LomellinaLand, è un po' come Corrado Augias o Piero Angela che tengono una conferenza all'Ipercoop.

Eppure: pubblico numeroso e attento, lei di una umiltà e di una classe superiori. Ci tiene subito a presentare la band che la accompagna, tra cui spicca Mark Harris (proprio lui!). Brani, pescati dalla carriera solista post-Matia Bazar ma anche più vecchi (da Per un'ora d'amore a Vacanze Romane), tutti elegantemente riarrangiati per questo "Concerto Versatile" (sugli echi dub di Solo tu ho quasi pianto).

Su Antonella che altro dire, che non sia già stato detto nei suoi più di 30 anni di carriera? Che ha commosso nella parentesi dedicata alla sua Genova (due gli omaggi a De Andrè, La canzone dell'amore perduto e Creuza de ma, e uno a Bruno Lauzi, Genova per noi). Che ha stupito per la sua voce da aliena, che è davvero così, come la si sente nei dischi o alla tv, e che può concedersi il lusso di una versione scat di Caravan di Duke Ellington.

Ridondante, forse, ma doveroso precisarlo: Antonella Ruggiero e la sua band hanno suonato ad offerta libera per una splendida ora e mezza. Qui a Vigevano ci teniamo Nek e Biondi. Che tristezza.



sabato 10 giugno 2017

C'è posto per tutti? Sulle relazioni inclusive, con gli altri e con noi stessi

Gael Garcìa Bernal in Mozart In The Jungle (Amazon Video)



C’è posto per tutti alla Junior Orchestra del maestro Rodrigo nella serie tv americana Mozart in the Jungle. I personaggi si scambiano uno sguardo al termine dell’esibizione di una bimba al flauto traverso. Gli orchestrali, americani, domandano con aria incerta al direttore dell’orchestra, messicano, se la piccola abbia superato la prova. Il maestro risponde senza esitazione: “Certo, alla Junior Orchestra c’è posto per tutti”. Primo piano sul suo volto, che tuttavia appare triste e pensieroso: poco prima ha comunicato alla sua amica Hailey di non avere passato il provino dell’orchestra ‘senior’, sebbene sia stata “… bravissima … oh, sai che lo sei stata … ma c’è stato qualcuno più bravo di te”. Il titolo dell’episodio è emblematico: o sei il migliore, o fai schifo. Fortunatamente la serie è intelligente e auto-ironica, e lascia intendere che dietro ad ogni sconfitta si cela una ripartenza e si aprono nuove opportunità.

Il tema è di quelli fondamentali, e si presta a discorsi sociali ed educativi, oltre che relativi alle relazioni ‘umane’ in generale.

Altro esempio, stavolta di ‘vita vera’: mostra di creazioni grafiche a tema letterario in una scuola secondaria della mia città, tappa finale di un percorso laboratoriale che ha coinvolto alunni di terza, quarta e quinta. I ragazzi hanno potuto lavorare in piccoli gruppi, confrontandosi e scambiandosi idee, sotto la guida di alcune insegnanti e dell’ideatore del progetto, un amico che fa il grafico per professione, davvero in gamba. La scelta è stata quella di selezionare, all’interno dei 30/40 lavori prodotti, i dodici più meritevoli, valutati da una giuria competente e con l’idea di realizzarne un calendario. Durante la giornata conclusiva, aperta a famiglie, parenti, amici e alla cittadinanza, la curiosità dei ragazzi era palpabile: i più si guardavano in giro, alcuni si scambiavano battute e sguardi divertiti, altri ancora raccontavano il percorso a parenti e amici. Al momento della proclamazione dei dodici elaborati vincitori, a spiccare per delusione era comunque l’atteggiamento dei familiari: il figlio/nipote/fratello/sorella non era tra i prescelti, avevano “vinto gli altri”; nella migliore delle ipotesi si curiosava in giro e, cosa che mi ha rincuorato, venivano poste alcune domande. Il più dispiaciuto, tuttavia, era il mio amico, che si interrogava sul significato del messaggio arrivato ai ragazzi: la scuola è di per sé un ente valutativo, dunque anche in un’occasione collaterale e creativa come quella veniva emesso una sorta di giudizio. D’altra parte, sembrava giusto premiare chi si era impegnato di più, mostrando maggiore interesse e partecipazione, e chi aveva prodotto le idee più originali (non è detto però che le due cose vadano insieme: l’impegno con la riuscita, l’interesse manifestato con la qualità del lavoro e delle idee create … la delusione può ben essere quella dell’allievo o dell’allieva che si sono entusiasmati ma che non hanno ricevuto il riconoscimento che si attendevano). Ad ogni modo, un crudo principio di “realtà”, più attuale che mai: nella nostra società non pare esserci spazio per tutti.

Come trovare un compromesso tra una logica competitiva - meritocratica, diremmo - ed una inclusiva - c’è posto per tutti, o meglio, per il valore di ciascuno? E’ tutto un talent-show?
Piccola parentesi sul significato del termine “talento”. Il talento riguarda una inclinazione naturale nello svolgere bene una certa attività. Dunque esso pare avere a che fare con una dote “di base”, che si ha la fortuna di possedere o meno dalla nascita e che certamente potrà emergere ed esprimersi attraverso l’impegno e l’esperienza, e grazie al proprio contesto di crescita, che può cogliere e valorizzare determinate capacità a scapito di altre (altra dose di fortuna). Un secondo aspetto messo in luce dalla definizione è che il talento attiene alla sfera del fare. Spesso, tuttavia, quando si assiste ad un talent-show, si ha l’impressione che ad essere giudicata sia la persona in sé e per sé, piuttosto che ciò che sa fare o il modo in cui riesce ad esibirsi in una specifica attività, in uno specifico momento della propria vita, sul palco della trasmissione televisiva tal dei tali. Risulta quindi comprensibile come programmi-vetrina del genere, tipica espressione della società-vetrina in cui viviamo (perlomeno in Europa/Occidente), siano fonte di ambiguità e confusione, oltre che di aspettative narcisistiche di successo e riuscita nei campi cui la società e i modelli di riferimento mediatici attribuiscono valore e importanza.

Il discorso, come è ovvio, diventa ancor più significativo per i giovani, poiché sul piano evolutivo ciò si traduce nella domanda: qual è e come posso trovare il mio posto nel mondo?

Continuando con le suggestioni evocate dal “talent”, può essere utile declinare la riflessione nei termini di un processo di sperimentazione e di scoperta di sé nel/del mondo, di ciò che piace, di ciò che si desidera fare, dei propri sogni, delle proprie attitudini.


Zygmunt Bauman


Mi torna alla mente un saggio del grande sociologo recentemente scomparso Zygmunt Bauman, “Intervista sull’identità” (2003). Messo alle strette dall’intervistatore, Benedetto Vecchi, che gli pone una domanda sul concetto di identità nell’epoca della globalizzazione, Bauman rigetta la metafora proposta del puzzle (che implica una ricerca dell’incastro corretto tra una serie di pezzi predefiniti in vista della costruzione di un’immagine che si conosce in anticipo) e offre invece quella del bricoleur, che “crea ogni sorta di cose col materiale a disposizione” (pag. 57). Sul concetto di identità come continua ricerca e costruzione il cui esito – se poi ha senso parlare di esito, come fosse un risultato e non un processo – ci risulta inconoscibile a priori, possiamo essere d’accordo, in maniera più o meno post-moderna. Ma l’aspetto a mio modo di vedere più interessante è il non concepire la progettualità in senso strumentale – quali mezzi per certi fini pre-determinati – quanto in senso finale: quali obiettivi appaiono possibili in base alle attitudini, alle capacità individuali, alle opportunità del contesto. E aggiungerei: sulla scorta di sogni e desideri personali, di ciò che ci piace, carburante quanto mai prezioso, se non essenziale.

In tal modo l’accento si viene a porre sul ‘cosa desidero con tutto me stesso, cosa voglio davvero’, e solo in seconda battuta sul ‘come faccio ad ottenerlo’. Il che è quantomeno un buon punto da cui partire, perché sollecita a riflettere non dando per scontati traguardi pseudo-desiderati o socialmente appetibili, in un atteggiamento di dialogo aperto e onesto con noi stessi, coi nostri valori, con ciò che davvero vorremmo realizzare e che sentiamo come importante. Il giornalista Gabriele Romagnoli (2015) ha utilizzato l’efficacissima metafora del bagaglio a mano: l’esperienza, oltre che aggiungere, insegna a togliere, a ridurre all’essenziale, a sfruttare lo spazio disponibile in modo creativo, accogliendo i limiti come un vantaggio e non come un ostacolo, costringendo a identificare quel che realmente si desidera portare con sé.


Lola Kirke in Mozart In The Jungle (Amazon Video)



Dopotutto, c’è speranza per Hailey, il personaggio di Mozart in the Jungle citato all’inizio. L’inquadratura fa capire che non si arrenderà, e che l’essere esclusa da un contesto libererà energie per re-inventarsi in nuovi scenari. E’ il concetto di “natalità”, così ben illustrato da Hannah Arendt: “la natalità è un permanente invito a ricordare che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare”.

E i ragazzi delusi del mio amico? Probabilmente, come detto, il più dispiaciuto era proprio lui. Magari qualcuno di loro, indipendentemente dal verdetto, ha avuto la fortuna di scoprire una vocazione, o comunque – cosa non meno importante – di iniziare a familiarizzare con una passione, con un nuovo canale per dare forma ed espressione alla propria creatività. Ma c’è di più: ogni nuova esperienza ci rimanda un’immagine inedita di noi stessi, e di “noi stessi in relazione con”. Permette di creare, in maniera non sempre e non immediatamente consapevole, nuove connessioni, aperture, relazioni, e ciò è reso possibile dal carattere dialogico e interattivo dell’attività proposta: le idee nascono ‘dal basso’, in questo caso dallo scambio e dal confronto costruttivo all’interno del gruppo dei pari.

Se all’opposto guardiamo il mondo con gli occhiali forniti dalla società-vetrina, che mirano al successo, alla fama, alla gratificazione immediata e all’identificazione di ciò che è l’ultima tendenza in fatto di apparire, allora la logica competitiva, del gioco a somma zero, dei vincenti/perdenti, ci appare come l’unica plausibile e dotata di senso.


Gregory Bateson



Nel 1942 l’antropologo Gregory Bateson scriveva, a conclusione del saggio intitolato “Pianificazione sociale e deutero-apprendimento”:

Se il balinese può essere mantenuto occupato e felice da una paura senza nome e senza forma, fuori dello spazio e dal tempo, noi potremmo bene essere tenuti all’erta da una speranza di enormi raggiungimenti senza nome, forma e luogo. Perché una tale speranza sia efficace non è certo necessario che il suo oggetto sia chiaramente definito. E’ solo necessario essere sicuri che ad ogni momento il successo può trovarsi appena svoltato l’angolo e, vero o falso che sia, questo non potrà mai essere deciso. Ci incombe di diventare come quei pochi scienziati e artisti che lavorano sotto la spinta di questa urgenza ispiratrice, l’urgenza che nasce dal sentire che la grande scoperta, la risposta a tutti i nostri problemi, oppure la grande creazione, il sonetto perfetto, sono sempre appena fuori della nostra portata, o come una madre che sente che c’è vera speranza, purché vi si impegni costantemente, che il suo bambino diventi quel fenomeno infinitamente raro: una persona felice e grande”.

Ecco, in quest’ottica il successo è la felicità intrinseca al fare, allo svolgere una cosa con passione e dedizione – con amore materno direi – sotto la spinta di quella forma di speranza e fiducia che Bateson chiama poeticamente “urgenza ispiratrice”.

L’inclusività diventa allora un modo di relazionarci con noi stessi e con gli altri, un atteggiamento di dialogo aperto e rispettoso che sollecita al confronto, al riconoscimento dell’Altro come dotato, di per sé, di un valore che gli deriva dall’essere impegnato – anche se spesso non lo sa – in questo lavoro, faticoso ma indispensabile e inevitabile, di continua ricerca, scoperta e creazione.

C’è posto per tutti si trasforma così, più opportunamente, in spazio al  valore di ciascuno.



BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA:

Hannah Arendt "Sulla violenza" (Guanda)

Gregory Bateson "Pianificazione sociale e deutero-apprendimento" (da "Verso un'ecologia della mente", Adelphi)

Zygmunt Bauman "Intervista sull'identità" (Laterza)

Gabriele Romagnoli "Solo Bagaglio a Mano" (Feltrinelli)


Mozart In The Jungle ("O sei il migliore o fai schifo!", terza stagione, Amazon Video)